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La “Grande Bulgarie” et l’Italie fasciste
Nous publions ici deux documents relatifs aux relations entre la Bulgarie et l’Italie fasciste :
- Un large extrait de l’article de Carlo Picchio dans la Revue Albania-Shqipni de septembre-octobre 1942 (Rivista Albania-Shqipni, Settembre-Ottobre 1942-XXI)
- Le chapitre « Le drame de la Macédoine » (Il dramma de la Macedonia) du livre de V.A. Martini, Il Mondo inquieto, Milano 1934.
Je produis à la fin de chacun de ces documents un résumé en français.
Ces deux documents montrent que la notion de « Grande Bulgarie » était historiquement fondée du point de vue fasciste italien : le premier retrace la situation régionale après la dissolution de la Yougoslavie pendant la Seconde Guerre mondiale en insistant sur les relations d’amitié entre la Grande Bulgarie nouvellement constituée et l’Italie fasciste, le second, sur « le drame de la Macédoine », expose le point de vue fasciste italien sur les raisons historiques qui légitiment la constitution d’une Grande Bulgarie incluant la Macédoine.
Le présent billet fait suite à « La Grande Albanie et l’Italie fasciste » précédemment publié sur ce blog (ici).
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Carlo Picchio, Rivista Albania-Shqipni, Settembre-Ottobre 1942-XXI.
(…)Per l’Italia e per l’Albania, il problema essenziale è quello dei collegamenti trasversali, nel senso dei paralleli, ed è problema che va acquistando di giorno in giorno maggiore importanza e più assoluto carattere d’urgenza. Il fatto principale che fissa i nuovi termini di questo problema è rappresentato dalle più recenti modificazioni alla carta politica della Balcania e in particolare dal contatto avveratosi, attraverso la regione albanese, fra la più grande Bulgaria e il sistema imperiale della nuova Italia.
Il dissolvimento della cessata Jugoslavia ha tolto precisamente di mezzo uno di quei grossi ostacoli innaturali che la storia ha, nei secoli, opposto all’affermazione dei logici diritti della geografia. La Jugoslavia, che pure pretendeva di rappresentare il cuore vivo della Balcania, si era costituita e aveva vissuto precisamente in antitesi alla funzione naturale del proprio suolo: si era collocata, scontrosa e arcigna, come un baluardo tra l’occidente e l’oriente, nemica all’uno e all’altro e tuttavia impotente a contrastare sia gli impulsi italiani onde tutto si commoveva lo Adriatico, sia l’anelito verso l’ovest che dalla sponda del Mar Nero e dalla riva settentrionale dell’Egeo si manifestava evidente attraverso la travagliata terra macedone.
L’Asse aveva porto alla ostinata Jugoslavia un’àncora di salvezza che questa non seppe afferrare. Forse contrastava troppo alla logicità dell’offerta dell’Asse la illogicità che era l’essenza stessa del regno balcanico. Il proposito di ricondurre il conglomerato serbo-croato-sloveno alla considerazione del compito storico della regione in cui esso aveva potuto sorgere era disperato perchè il riconoscimento di quel compito implicava rinunzia all’azione pertubatrice che i padrini della Jugoslavia le avevano imposto creandola. La soluzione venne perciò, netta e radicale, dalla forza inesorabile delle cose: l’assurdo jugoslavo cessò d’inquinare il centro della Balcania: l’Albania ebbe le terre che da secoli attendevano di esserle ricongiunte; la Bulgaria riaffermò i suoi diritti nazionali e storici sulla terra macedone ed una sola frontiera, destinata ad essere linea di contatto tra due potenze amiche, si sostituì alle frontiere precedenti che volevano essere, e difatto erano, superfici di attrito tra organismi malatti di secolare e recente risentimento e sempre agitati dalla perfida azione sobillatrice di estranei interessati.
Ormai il problema della massima communicazione trasversale transbalcanica è un problema italo-albanese e bulgaro semplificato non solo dalla eliminazione di malevoli terzi, ma dalla cordialità dei rapporti che intercedono tra Roma e Sofia e tra il popolo italiano e il popolo bulgaro. Chiunque ha pratica di cose balcaniche e chi ha seguito, da vicino ed in loco, lo sviluppo di tali rapporti, sa che questa cordialità non è una espressione convenzionale del linguaggio diplomatico, ma una realtà che ogni giorno diventa più viva e più fervida. Roma e Sofia hanno tra loro vincoli spirituali e culturali saldissimi, creati sopratutto dal movimento letterario bulgaro che si orientò, tra la fine dell’ottocento e il principio del secolo presente, risolutamente verso l’Italia dove anche vissero e crearono poeti come Slavejkof e Vazov.
Roma e Sofia hanno inoltre tra loro vincoli di carattere economico che vanno ogni giorno rafforzandosi e basterà, al riguardo, considerare la imponente cifra d’importazioni che l’Italia ha ormai raggiunto per alcuni generi di produzione bulgara, quali il tabacco e le uova.
Questi rapporti culturali ed economici, che si concretano in scambi intelletuali e di mezzi, sono, naturalmente, il presupposto migliore per un’intesa in materia di communicazioni. Strade, servizi aerei e linee telefoniche rappresentano i mezzi per l’attuazione di quegli scambi e il tracciato di quelle strade e di quelle linee interessa necessariamente l’Albania. Il tracciato albanese non soltanto abbrevia le distanze, ma elimina interferenze e controlli da parte di terzi. E’ pertanto comprensibile che questo tracciato abbia formato, e vada formando, oggetto di particolare attenzione da parte delle autorità italiane e bulgare che in questi ultimi tempi si sono occupate dei collegamenti tra i due paesi, discutendone, ormai sotto lo aspetto pratico e concreto, le modalità di attuazione.
Due grandi passi innanzi verso la soluzione del problema, o, più esattamente, dei problemi delle communicazioni italo-bulgare attraverso l’Albania, sono stati fatti in occasione della visita del ministro Riccardi a Sofia, nel maggio 1942 e in occasione della recente venuta del ministro bulgaro Zachariev a Roma. Altri accordi sono stati presi, a quanto ci risulta, sopratutto per le communicazioni telefoniche e per gli allacciamenti radiofonici, nelle conversazioni che hanno avuto luogo a Sofia, nell’ottobre di quest’anno, in seno alla commissione mista per la esecuzione degli accordi culturali fra l’Italia e la Bulgaria.(…)
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Carlo Picchio (1905-1967), écrivain, journaliste et traducteur, écrit cet article en 1942 dans la revue Albania-Shqipni consacrée aux affaires albanaises. Il montre que l’Italie fasciste a, contre la Yougoslavie –laquelle fut démembrée pendant la guerre avant de se reconstituer, après la défaite de l’Axe, sous l’hégémonie de Tito–, favorisé d’une part la Grande Albanie et d’autre part la Grande Bulgarie.
La dissolution de la Yougoslavie en avril 1941 mit fin, selon Picchio, à une aberration géographique. Créée en 1918, la Yougoslavie, qui prétendait être « le cœur vivant des Balkans », n’était en réalité constituée qu’en « antithèse des fonctions naturelles du sol », comme un rempart entre l’Occident et l’Orient ennemi de l’un et de l’autre. Sa disparition répondait à la nature des choses, (à la «forza inesorabile delle cose», la force inexorable des choses) en permettant la réunion des terres historiquement et culturellement albanaises, telles que le Kosovo, dans la Grande Albanie, membre de la Communauté impériale (Comunità Imperiale) fasciste, et la réunion de la Macédoine à la Grande Bulgarie. Une frontière entre puissances amies remplaçait désormais les précédentes lignes de friction entre organismes malades et travaillés par des puissances étrangères à la région.
Picchio rappelle que le royaume de Yougoslavie fut signataire du Pacte tripartite, c’est-à-dire fut un allié de l’Axe, mais qu’il « ne sut pas saisir cette chance de salut », sans doute, ajoute-t-il, parce que la survie de cette entité politique n’était pas compatible avec la stabilité régionale.
Dissoute la Yougoslavie, les communications transbalkaniques devenaient un problème italo-albano-bulgare simplifié grâce aux relations cordiales entre ces États. Picchio affirme que les relations entre l’Italie et la Bulgarie ont leurs bases intellectuelles dans l’orientation italianiste des lettres et de la culture bulgares à partir de la fin du dix-neuvième siècle sous l’impulsion de grands auteurs comme Pencho Slaveykov et Ivan Vazov, qui vécurent en Italie.
Dans le nouveau contexte, Picchio indique que les relations économiques entre Rome et Sofia ne cessent de croître.
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Il dramma della Macedonia
Vito A. Martini, Il Mondo inquieto, Milano 1934, pp. 210-226.
Non crediamo esista in nessuna parte del mondo un paese così travagliato e infelice come la Macedonia.
E’ stato appunto creato in questi ultimi tempi il neologismo «macedonizzare», per indicare un processo violento e pertubatore di colonizzazione nazionalistica che comporta tutti i pericoli attinenti ad una politica di tirannia e di irresponsabilità.
A questo processo di colonizzazione drastica soggiace la Macedonia dall’epoca di quel famoso trattato di Berlino del 1878, che segnò l’inizio più torbido e più turbolento della vita politica di tutta la penisola balcanica.
Oggi la Macedonia è una piattaforma serbo-ellenica di occupazione. Per comprendere in tutta la sua ampia e tragica portata quella che è ormai conosciuta internazionalmente come «la questione macedone», tratteggeremo gli aspetti storici della Macedonia, quegli aspetti così impunemente mistificati dagli scienziati serbi, che per servire la causa dell’imperialismo di Belgrado non si peritano di travisare con singolare disinvoltura quello che è rigorosamente acquisito alla scienza e alla storia.
E siccome una delle giustificazioni più frequenti date dai circoli politici di Belgrado per leggitimare tutte le azioni illegali svolte in Macedonia, consiste appunto nel voler far credere all’opinione internazionale che la Macedonia sia sempre passata come una regione slava etnicamente amorfa, poi diventata bulgara per opportunismo politico anti-ottomano, ma serba di sostanza, assolveremo il compito di analizzare e confutare con ogni obiettività queste asserzioni tutt’affatto strabilianti.
Tutti gli esploratori e geografi e missionari hanno sempre riconosciuto come Macedonia il territorio compreso fra il Mar Egeo ed il Lago d’Ochrida, la Bistrizza, lo Sciar e la Mesta; e come bulgari gli slavi macedoni autoctoni, viventi in quella zona insieme con una minoranza di albanesi, greci, valacchi, turchi ed ebrei, che diverse correnti migratorie portarono ad abitare nei paesi macedoni.
Su questo punto non è possibile mistificare. Su di esso si trovano d’accordo missionari, viaggiatori, storici e sapienti imparziali.
E che i macedoni siano bulgari lo dimostra lampantemente il fatto che essi lottarono tenacemente insieme coi bulgari per l’emancipazione nazionale e politica, etica e religiosa, che sopportarono uniti inauditi sforzi per resistere all’opera di assimilazione del patriarchismo greco, dell’oppressione ottomana, della propaganda panserba (ultima arrivata nei riguardi della Macedonia), che doveva poi rovesciare con singolare semplicismo i termini della storia e dell’etnografia.
Ma vediamo un poco quali origini ha questa propaganda panserba sulla Macedonia, e su quanta verità si sia appoggiata sin dal suo nascere.
Cominciamo anzitutto con una messa a punto: l’antica simpatia veramente disinteressata di Belgrado verso la Macedonia. Nessuno può contestare che la stampa serba, anche quella ufficiosa, della fine del secolo scorso (Jédinstvo, Srbski, Dnevnik, ecc.) non faceva alcuna differenza fra macedoni e bulgari, e diceva che la Macedonia costituiva una compattezza etnografica dallo Sciar all’Egeo, e giungeva persino a stigmatizzare violentemente l’opera tortuosa ed insistente del patriarchismo greco che mirava ad ellenizzare tutta quanta la Macedonia e la Tracia, avendo di mira l’abbaglio risorgente della «magna Grecia».
Queste opinioni che furono generali nelle masse serbe vengono d’altronde riscontrate nelle opere storiche etnografiche linguistiche folkloristiche degli stessi scienziati serbi d’allora.
Se la base scientifica d’una conoscenza integrale e obiettiva sulla Macedonia, subì poi presso la cultura serba un altro orientamento, e fu mistificata tout court, con quel semplicismo facilone che caratterizza in parte quello strano miscuglio di romanticismo e di misticismo, di fatalismo e di ambizione che costituisce la mentalità serba, ciò si deve al fatto che a Belgrado si cercò e si insistette di subordinare la scienza alla politica, modificandola e falsificandola in quei punti in aperta contraddizione coi programmi prestabiliti di espansione.
Non vogliamo soffermarci a lungo sulla constatazione che anche la popolazione serba considera la Macedonia come un paese a sè, etnograficamente compatto, geograficamente distinto, storicamente ed eticamente legato alla popolazione bulgara, ma basterebbe un’altra circostanza per stabilire una volta per sempre quanta falsità cosciente vi sia nelle pubblicazioni serbe sulla Macedonia.
E’ noto che lo storico serbo Milajevic, per aver sollevato alla seconda metà del secolo scorso l’idea del «serbismo macedone», per poco non minacciò di essere esiliato o di essere chiuso in un frenocomio.
Perchè dunque questo voltafaccia della cultura serba sulla Macedonia? questo affannoso creare dei sapienti di Belgrado, nei laboratorii dei loro sofismi, le basi su cui fondare con «giustificazioni storiche» le pretese serbe sulla Macedonia?
Ecco. Con l’occupazione della Bosnia-Erzegovina compiuta violentemente dall’Austria-Ungheria nel 1876 e sanzionata dal trattato di Berlino il 1878, i serbi si videro preclusa l’espansione verso l’Adriatico, alla cui attuazione cominciavano già a lavorare le loro organizzazioni nazionalistiche segrete.
Vienna nel contempo, per tacitare i malumori serbi su quella occupazione e per stornare dall’Adriatico lo sguardo cupido di Belgrado, convinse Re Milan di trovare uno sbocco al suo espansionismo verso sud, verso le zone calde e doviziose della Macedonia che avrebbe così separato per sempre i serbi dai bulgari, effettuando quel principio del divide et impera che fu la base e la ragione di vita di tutta la politica balcanica del Ballplatz.
Una dimostrazione di questo nuovo orientamento dell’azione belgradese, è data intanto da questa dichiarazione che il Ministro serbo degli Affari Esteri d’allora Jovan Ristic, fece in una seduta segreta della Scupcina tenuta a Kragujevaz: che «era tempo che la Serbia cominciasse a pensare ad un ingrandimento al sud dello Sciar Planino» (frontiera settentrionale macedone confinante con la Serbia).
Fu così che si cominciò nei circoli politici e intellettuali a creare con acrobatiche e sofistiche ricerche pseudo-scientifiche una base storica su cui poter fondare validamente i piani d’espansione verso l’Egeo, ed a spendere quasi i tre quarti dei fondi del Dicastero degli Esteri per sovvenzionare emissari e propagandisti incaricati di svolgere in Macedonia un’azione di preparazione ai programmi di colonizzazione serba.
A voler giudicare la deficiente serietà, il carattere antiscientifico e sedicentemente rigoroso di quei «motivi storici» adotatti con strabiliante disinvoltura dagli scienziati serbi, accenneremo ad un periodo, che è uno fra i più sbalorditivi che mai siano stati commessi dal più superficiale e semplicistico e unilaterale cultore di scienze positive.
Nella brochure «bulgari e jugoslavi» edita dalla Associazone jugoslava per la Società delle Nazioni, si riscontra un corollario filologico che tocca il non plus ultra di un cervellotico e risibile sillogisma. Il corollario deriva da una strana ed involuta ricerca etimologica della parola «bulgaro». Si legge infatti: «… e la parola «bulgaro» che designa in Macedonia la parte della popolazione dedicata ai più penosi lavori dei campi, è divenuta quindi un sinonimo di «rustico», donde la parole francese «bougre», dai cui deriverebbe quella di «bulgaro».
A parte la enorme contraddizione in termini che diventa paradossale, ci sembra, questa, una maniera cabalistica e meandrica di ragionare che dispensa da ogni serio commentare.
La storia, quella vera e imparziale, è a portata di mano di chiunque, e sta a dire quanta affinità, anze quanta identità vi sia fra gli slavi autoctoni della Macedonia ed i bulgari, stretti dai vincoli di un medesimo ideale nazionale, da una stessa cultura e religione, dai legami storici di lotte comuni sostenute contro tutte le prevalenze egemoniche mediterraneo-orientali che giuocavano sull’Egeo il ruolo principale delle loro azioni.
E se dovesse occorrere una dimostrazione a tutto questo, basterebbe la sola circostanza che la Bulgaria ha fatto tutte le sue guerre per la Macedonia, come la Francia per l’Alsazia-Lorena e l’Italia per le sue provincie del Nord, e che fu proprio in Macedonia ch’ebbe la prima origine il movimento per l’emancipazione religiosa dei bulgari, movimento che finì per essere accolto a Costantinopoli, dove si riunì un concilio di vescovi bulgari e macedoni per la costituzione di quell’Esarcato che rappresentò nel 1870 un valido punto di appoggio e di riferimento per l’emancipazione integrale del nazionalismo bulgaro.
L’indole di questo studio rapido e sommario non ci consente di approfondire delle indagini erudite per affermare con ogni rigorosità scientifica la personalità etnica, storica e geografica della Macedonia, ma ciò del resto ci sembra fatica superflua come tutte le analisi dirette a dimostrare delle cose evidenti.
Non si può negare il carattere draconiano dell’imperialismo turco concretato attraverso vari secoli sulla piattaforma balcanica, nè la funzione islamica, quindi anticristiana, di cui era investito quell’imperialismo; e se nonostante ciò si continuò sempre presso i turchi a considerare come bulgari gli slavi della Macedonia aggiogata, segno è che la individualità etnografica dei bulgaro-macedoni è cosa assolutamente inconfondibile.
Dall’atteggiamento viennese di sostegno alle mire serbe sulla Macedonia, risultò l’intesa segreta del 1881, in vigore della quale la Serbia si impegnava di astenersi da ogni agitazione in Bosnia-Erzegovina, e l’Austria dal canto suo si adoperava di sostenere Belgrado nelle «rivencazioni sulla Serbia del sud».
Durante la visita di Re Alessandro Obrènovic a Sofia nel 1897, si cercò intanto di arrivare ad una intesa con la Bulgaria sulla base di una amichevole ripartizione del territorio macedone. Ma la politica macedone del Governo sofiota si concentrava in una parola: autonomia. Era appunto in vista del conseguimento del self-government che i macedoni avevano formato nel 1893 l’Organizzazione Rivoluzionaria Segreta, che continua oggi la sua azione antiserba sotto la sigla O.R.I.M., e che fu il terrore di bey turchi, i quali mantenevano la Macedonia sotto un regime di drastica oppressione.
Questa organizzazione irredentistica, sorta per salvaguardare l’esistenza della popolazione e per liberare il Paese da tutti gli oppressori, estese subito la sua rete di proseliti nei vialayeti di Salonico, Monastir, Scopliè, riuscendo a far esplodere nell’agosto 1903 una grave insurrezione popolare, che fu subito represa, ma che provocò nondimeno l’intervento delle Potenze straniere, la cui azione riformatrice e tutelatrice andò però attenuandosi, fino a svanire del tutto nell’epoca in cui la rivoluzione dei «giovani turchi» avrebbe richiesto una maggiore tutela di fronte all’aggressione anticristiana di questo nuovo nazionalismo ottomano sorto impetuoso sulle rovine inaspettate della decadenza sultaniale e califfale.
La Bulgaria, più direttamente minacciata da questo movimento invadente della giovinezza turca risollevatasi nel 1908, dovette allora acconsentire a trovare un aiuto nella Serbia, rinunziando alla sua intransigente politica macedone dell’autonomismo, e piegandosi a negoziare con Belgrado il 13 marzo 1912 un trattato di amicizia e di alleanza, in cui i serbi riuscirono ad includere questa clausola: «In quanto al territorio compreso fra lo Sciar, il Rhodope, il Mar Egeo ed il lago d’Ochrida (cioè quasi tutta la Macedonia), se le due parti contraenti arrivano alla convinzione che una organizzazione in province autonome distinte è impossibile, visto gli interessi comuni della nazionalità serba e bulgara ecc…».
Con questa clausola Belgrado cominciava dunque a parlare ufficialmente di «nazionalità serba» in Macedonia. Il governo belgradese riconosceva intanto come «spettante alla Bulgaria la zona situata all’est di una linea che, partendo dall’antica frontiera turco-bulgara al nord di Kriva Palanka, seguiva la direzione generale di sud-est, fino ad arrivare alla riva nord del lago d’Ochrida; e per regolare la sorte del territorio compreso fra questa linea, il monte Sciar ed il fiume Drina, esso s’impegnava insieme col Governo sofiota di ricorrere all’arbitrato di Pietroburgo e di accettare la sua decisione.
Senonchè, in seguito alla vittoria conseguita contro i Turchi della Lega balcanica (Serbia, Montenegro, Grecia, Bulgaria), Belgrado richiese a Sofia la revisione dell’accordo sulla Macedonia, mirando ad ottenere il massimo delle concessioni su quel territorio; ma come la Bulgaria aveva già fatto delle gravi e dolorose rinunzie col trattato del marzo 1912, rigettò la richiesta di Belgrado, e dal conflitto diplomatico che ne sorse, scoppiò la seconda guerra interbalcanica, da cui la Bulgaria uscì disfatta e spogliata.
Col trattato di Bucarest del 10 agosto 1913 la Serbia s’impossessò di gran parte della Macedonia, dividendola con la Grecia, ai termini d’un trattato segreto concluso con essa a Salonico il 2 giugno 1913.
Dall’«Inchiesta nei Balcani» eseguita da una commissione della Dotazione Carnegie per la pace internazionale, risulta che la Macedonia fu considerata a Belgrado «une sorte de colonie conquise que les conquérants pouvaient administrer à leur gré».
Con l’occupazione serba della Macedonia, avvenuta secondo il principio contemplato nell’art. 3 del patto segreto serbo-greco del 2 giugno 1913, cioè sulla base di operazioni militari, la Macedonia entrò nella fase più angosciosa della sua storia.
Il panserbismo, ch’era deciso a tutto per seguire ed effetuare i suoi plani di pressione su Salonico, si dette allora ad un’opera vandalica e terroristica di distruzione di tutto ciò che costituiva una nota di bulgarismo, appunto perchè si perdesse in Macedonia ogni traccia bulgara che potesse ritardare od ingombrare il processo serbo di colonizzazione.
Ancora nel 1912, sotto il dominio ottomano, la Macedonia contava 5 vescovi, 647 preti, 677 chiese, 54 capelle e 48 conventi, 556 scuole primarie con 847 insegnanti e 32.155 scolari, 24 «proginnasi» con 106 professori e 1.955 allievi, 5 ginnasi con 25 professori e 875 discenti.
Tutti questi gangli vivi del sentimento religioso e dell’idea nazionale dei bulgaro-macedoni, furono distrutti non appena Belgrado estese su quel territorio il suo dominio, facendo funzionare le dispotiche e sadiche gendarmerie, l’insidia dei comitagi, l’oppressione autoritaria dei jupan.
Questo processo draconiano di violenta colonizzazione serba, che dibattezzava tutto ciò ch’era bulgaro, non fece intanto che esasperare il nazionalismo dei bulgari, i quali erano riusciti col trattato di Santo Stefano ad incorporare nelle frontiere della madrepatria tutto il territorio macedone, e s’erano battere le due guerre balcaniche del 1912 e 1913, per salvare quel territorio dall’oppressione ottomana prima, e dopo dalla ambizione espansionistica dei serbi.
Noi siamo convinti, nonostante si sia detto da più parti che Re Ferdinando di Bulgaria fu di tendenza germanofila e si preparava quindi durante il conflitto europeo a scendere in campo a fianco delle truppe prussiane, che se le Potenze alleate avessero fatto al Governo di Sofia un’offerta precisa nei riguardi della Macedonia, la Bulgaria sarebbe intervenuta nel conflitto a fianco dell’Intesa. Ma questa offerta non fu mai avanzata, prima per la esitazione degli Alleati e poi perchè Belgrado riuscì validamente ad opporsi ad ogni tentativo di questo genere.
Non doveva quindi stupire nessuno l’atteggiamento di Sofia, quando partecipò alla guerra nel blocco degl Imperi Centrali, appunto perchè la Bulgaria non sa e non può disgiungere il suo ideale nazionale dalle sorti della Macedonia, che costituisce cellula viva, parte integrante della sua storia.
La Bulgaria combatteva per la Macedonia come l’Italia per il Brennero e l’Adriatico. Essa non faceva una guerra di conquista, sosteneva una lotta ch’era considerata sacra e giusta, perchè illuminata da un sentimento di umana giustizia e dalla fede incrollabile di poter liberare una popolazione ch’era diventata nei Balcani doloroso elemento sperimentale di pratica imperialistica di quanti intendevano assicurarsi una posizione di predominio nelle penisola.
Ma la guerra mondiale si risolse in un vero disastro per la Bulgaria; e se essa, mutilata e avvilita, non ebbe più il modo di occuparsi della Macedonia, i macedoni non cessarono di pensarvi.
Poi vennero i trattati di pace, gli accordi internazionali conclusi per sanzionare il frusto e menzognero principio della «guerra alla guerra»; e le diplomazie delle Potenze alleate e associate, invece di dare alla Macedonia una risoluzione che corrispondesse allo spirito e alle vedute dei 14 punti di Wilson, mistificati e falsati, preferirono concludere la penosa questione macedone con la soluzione generica che si credette dare alla esistenza dei diritti delle minoranze nazionali.
La questione macedone diventava quindi semplicemente una questione di minoranza etnica. Un cinquantennio di storia ardente e sanguinosa si concludeva semplicisticamente a San Germano, dove la Serbia e la Grecia firmavano rispettivamente con le Potenze alleate e associate degli accordi relativi alle minoranze dei loro Stati, stipulazioni messe sotto garanzia della Società delle Nazioni il 29 novembre 1920.
E con ciò?
L’umanitarismo wilsoniano e lo spirito di pace e di serena collaborazione internazionale tenuto solennemente a battesimo nel Palazzo di Versailles non si riduceva che a poche clausole di contratti diplomatici eluse e inosservate poi dagli egoismi megalomaniaci degli Stati maggioritari.
Gli articoli 51 e 60 del Trattato di San Germano concluso il 10 settembre 1919 stabilivano che «le minoranze etniche sono quelle che differiscono dalla maggioranza delle popolazioni, per la razza, la lingua o la religione».
Per eludere quindi gli obblighi di cui s’erano impegnati la Serbia e la Grecia nei riguardi delle loro minoranze nazionali, s’incominciò a Belgrado a rimettere in auge tutta quella falsa letteratura storica e scientifica sulla Macedonia, la quale pretenderebbe di affermare il principio che quella regione costituisce geograficamente ed etnicamente una appendice naturale della Serbia del Sud; ed a Atene a proclamare con maggiore semplicismo che le popolazioni macedoni sono dei «greci bulgarofoni».
Da queste premesse pseudo-scientifiche dovevano poi procedere quei sistemi violenti di serbizzazione ed ellenizzazione di tutta la Macedonia.
Intanto oggi l’opinione pubblica europea è scarsamente o falsamente informata della dolorosa condizione in cui versa un popolo onesto e laborioso, fiero e tenace, che sente vigoroso e caldo il sentimento nazionale e religioso, e non può dimenticare le lotte sanguinose sostenute dagli avi per la liberazione dai dominatori.
Le continue petizioni e proteste inviate a Ginevra dalle diverse delegazioni macedoni attestano chiaramente la brutalità dei sistemi disumani adotatti da Belgrado in vista della totale assimilazione della Macedonia. Esse ci informano che sono state chiuse sino ad oggi 541 scuole bulgare con 37 mila scolari, espulsi 1013 insegnanti, confiscate e trasformate in chiese ortodosse serbe 761 chiese bulgare, cacciati sei vescovi, perseguitati e sterminati 833 sacerdoti; distrutte tutte le biblioteche e sale di lettura; proibite le pubblicazioni di periodici bulgari in Macedonia; interdetto l’uso della lingua bulgara in tutte le manifestazioni pubbliche e private della vita; cambiati i nomi patronimici cui si è attribuita la desidenza serba caratteristica in «ic»; proibita l’assegnazione di nomi nazionali ai neonati, che vengono inveci scelti da una lista preparata dalle autorità ecclesiastiche serbe; imposto dei matrimoni fra giovinette e donne macedoni con gendarmi serbi inviati in Macedonia; precluso l’accesso a tutti gli uffici e a tutte le pubbliche funzioni agli intellettuali macedoni…
A completare l’abominevole quadro vi ha poi una elencazione di delitti che i serbi hanno perpretato in Macedonia dal 1 gennaio 1919 al 1 gennaio 1926: 263 assassinii, 178 violazioni carnali di cui 43 su ragazze minore di 13 anni, 1342 case incendiate, 4850 arresti arbitrarii, 12 millioni e mezzo di dinari estorti sotto minaccia di morte, 5445 persone di tutte le età crudelmente maltrattate…
Per sfuggire a questa furia sadica di devastazione sono intanto emigrati più di 300 mila macedoni. E da Belgrado non si accenna nullamente ad attenuare queste persecuzioni, anzi, il premiare i gendarmi che commettono atti di iconoclastica e sanguinaria brutalità, aizza ed incoraggia questa campagna di destruzione.
Si è tentato diverse volte a Belgrado di inorbitare nella propria azione balcanica la politica di Sofia, mirando magari a preparare quell’annessione della Bulgaria che i panserbisti più infervorati definiscono «la Jugoslavia orientale», e che le sfere della massoneria balcanica pretenderebbero di propiziare secondo un falso concetto della parola «jugoslavo» come ce l’aveva il dittatore serbofilo Stambolisky; ma fra Sofia e Belgrado c’è il grande abisso della Macedonia, nonostante si sia riusciti a firmare le convenzioni del Pirot e ad includere nei programmi dei congressi balcanici di Atene e di Salonico l’intenzione più platonica che reale di voler risolvere il problema minoritario, vero ed unico ostacolo ad ogni avviamento d’una politica d’intesa.
Noi abbiamo la indubbia e ferma convinzione che l’unico ostacolo che si possa opporre a tutti i tentativi di pace compiuti dagli Stati balcanici, sia costituito dalla Macedonia; come siamo convinti che la penisola balcanica avrà sempre una esistenza precaria ed oscillante fino al giorno in cui non si saranno riconosciuti alla tribolata Macedonia tutti i suoi giusti ed incontrovertibili diritti.
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Vito Augusto Martini est un auteur italien spécialiste des questions de géopolitique, collaborateur de la revue fasciste Gerarchia.
Son ouvrage Il mondo inquieto de 1934 comporte un chapitre sur « Le drame de la Macédoine », reproduit ci-dessus et que je résume.
Les maux de la Macédoine moderne commencèrent, selon Martini, avec le traité de Berlin de 1878 entérinant l’occupation de la Bosnie-Herzégovine par l’Empire austro-hongrois, lequel traité conduisit en 1918, à la fin de la Première Guerre mondiale, à la création de la Yougoslavie, incluant une large partie de la Macédoine, l’autre revenant à la Grèce. Celle-ci devint alors, selon Martini, « une plateforme d’occupation serbo-hellénique », une terre de colonisation étrangère.
Cette occupation et cette colonisation furent justifiées par les nouveaux intellectuels serbes de Yougoslavie au nom d’un « serbisme macédonien », dont le père, l’historien serbe « Milajevic » (sic : Milos Milojevic), à contre-courant de toutes les idées établies sur la question dans la moitié du dix-neuvième siècle, fut menacé dans son propre pays pour ses idées. À l’époque, il semblait évident aux Serbes eux-mêmes, dit Martini, que les Macédoniens sont des Bulgares, et l’intelligentsia serbe de l’époque, partant de ce fait, dénonçait d’ailleurs les activités panhelléniques dans la région.
Une volte-face se produisit sur ces questions après l’annexion de la Bosnie-Herzégovine par l’Empire des Habsbourg. Cette annexion fermait aux Serbes la voie de la mer Adriatique, à laquelle travaillaient leurs organisations secrètes, et Milan IV de Serbie en vint donc à tourner ses regards vers la Macédoine, utilisant pour cela les théories jusqu’alors réputées sans fondement de Milojevic.
Un compromis secret (intesa segreta) fut conclu entre l’Empire austro-hongrois et la Serbie, selon lequel la seconde s’engageait à renoncer à toute agitation en Bosnie-Herzégovine en échange du soutien de l’Empire aux visées de la Serbie sur la Macédoine, qui fut alors dénommée « Serbie du Sud ». Dans le même temps, la Serbie se heurtait, dans ses démarches diplomatiques vis-à-vis de la Bulgarie, à la position intransigeante de cette dernière en faveur de l’autonomie de la Macédoine.
La Bulgarie fut cependant conduite à des compromis avec la Serbie dans le cadre de la Ligue balkanique en lutte pour l’indépendance des Balkans contre l’Empire ottoman. Le refus de la Serbie de revenir sur ces compromis conduisit à la guerre interbalkanique de 1912, où la Bulgarie fut battue, la Macédoine passant par le traité de Bucarest de 1913 entre les mains de la Serbie et de la Grèce. Dans la partie de Macédoine qu’ils occupèrent, les Serbes se livrèrent à la destruction systématique de toutes les traces culturelles de « bulgarité », perçus comme autant d’obstacles à la politique de colonisation serbe projetée par le gouvernement.
C’est là, selon Martini, la raison pour laquelle la Bulgarie entra dans le premier conflit mondial aux côtés des Empires centraux, la Triple Entente soutenant Belgrade et ne semblant nullement disposée à revenir sur le statut de la Macédoine : la Bulgarie combattait pour la Macédoine contre un nouvel impérialisme serbe dans les Balkans.
Les suites de la Première Guerre mondiale furent désastreuses pour la Bulgarie. La question macédonienne, loin d’être traitée au chapitre des quatorze points du président Wilson, fut abordée comme une question de minorités nationales de la Yougoslavie nouvellement créée et de la Grèce, solution que ces deux États s’empressèrent de ratifier. Pour éluder ces clauses elles-mêmes, les Grecs ne parlaient plus des Macédoniens de leur territoire que comme de « Grecs bulgarophones », et les Serbes de Yougoslavie continuaient d’exploiter la littérature pseudoscientifique relative à leur hypothétique « Serbie du Sud », sur laquelle s’appuyèrent les progrès subséquents de serbisation de la Macédoine, malgré les multiples délégations envoyées par les populations de Macédoine à la Société des Nations à Genève, dénonçant les fermetures d’écoles bulgares, les expulsions et assassinats d’enseignants, la confiscation d’églises bulgares et leur transformation en églises orthodoxes serbes, les expulsions et assassinats de prêtres, l’interdiction des publications en langue bulgare, de même que l’interdiction de la langue dans toutes les manifestations de la vie publiques et privées, l’interdiction des patronymes bulgares, les mariages forcés des jeunes filles macédoniennes avec des soldats serbes, l’exclusion des intellectuels macédoniens de tous emplois publics, etc. Pour fuir ces persécutions et les autres formes de violence exercées contre la population, 300.000 Macédoniens fuirent leurs foyers.
Pendant ce temps, les intellectuels panserbes se mettaient à parler de la Bulgarie elle-même comme d’une « Yougoslavie orientale ».
C’est ainsi que Martini décrit la question macédonienne en 1934.
Nous avons vu dans la première partie de ce billet que la dissolution de la Yougoslavie à la suite de son occupation par les forces de l’Axe était décrite par la diplomatie fasciste italienne comme un événement favorable à la Grande Bulgarie. C’est bien le cas puisque, après la capitulation du gouvernement yougoslave, la Bulgarie annexa la plus grande partie de la Macédoine, jusqu’à la frontière de la Grande Albanie (à savoir, toute la Macédoine serbe et l’est de la Macédoine grecque). Les historiens s’accordent à dire que la population macédonienne fit bon accueil aux Bulgares (John R. Lampe, Yugoslavia as History, 2000). Le gouvernement de Sofia gouverna sur la Macédoine jusqu’à la « libération » et la reconstitution de la Yougoslavie sous le dictateur Tito.
Comme dans le cas de l’Albanie, dont le Kosovo est à ce jour indépendant, la Macédoine est aujourd’hui, après bien des vicissitudes, un État indépendant de la Bulgarie nommé République de Macédoine du Nord ; dans les deux cas, les avocats des concepts de Grande Albanie et de Grande Bulgarie affirment que cette fragmentation, cette « balkanisation » de leurs territoires est un compromis que les grandes puissances occidentales concèdent à leurs ennemis.
La langue officielle de la Macédoine du Nord est le macédonien, dont voici ce que dit Wikipédia : « La langue la plus proche du macédonien est le bulgare, qui possède le plus haut niveau d’intelligibilité. Avant leur codification en 1945, les dialectes macédoniens étaient d’ailleurs considérés pour la plupart comme faisant partie du bulgare. Certains linguistes le pensent encore, mais un tel point de vue est connoté et politiquement sujet à controverse » (avec renvoi à : Hugh Poulton, Who Are the Macedonians? 2000). La politique des Anglo-Saxons ayant de longue date soutenu le panserbisme dans les Balkans, avant d’ouvrir les yeux sur la nature de leur protégé dans les années 1990, qu’une source anglo-saxonne donne le dernier mot aux opposants de la connexion linguistique entre bulgare et macédonien n’est nullement étonnant. (Et qu’une source en français la reprenne sans le moindre examen critique, n’est malheureusement que trop conforme à la qualité de l’intelligence française.)
De D’Annunzio, du fascisme et de la Révolution mexicaine
I/ D’Annunzio et le fascisme
II/ D’Annunzio et la Révolution mexicaine (le fascisme italien et la Révolution mexicaine)
*
I
D’Annunzio et le fascisme
D’aucuns, dont j’ignore s’ils écrivent aussi sous leur vrai nom, affirment que, s’il fut un enthousiaste du fascisme à ses débuts, D’Annunzio (1863-1938), l’un des écrivains les plus lus de son temps, s’en distança par la suite, se rendant compte, d’après ces gens, de la nature foncièrement mauvaise du régime fasciste en le voyant pratiqué. Bref, il ne savait pas ce que cela donnerait, mais il le vit par la suite, comme nous le voyons tous aujourd’hui, tous, c’est-à-dire ceux qui ne savent pas comment concilier publiquement leur goût pour l’œuvre de ce grand écrivain et poète avec la franche admission de son fascisme invétéré. Il n’y a qu’à ouvrir la page Wikipédia en français sur D’Annunzio pour trouver cette fausseté. Cette page commence en effet ainsi : « Gabriele D’Annunzio, ou d’Annunzio, prince de Montenevoso, est un écrivain italien, né à Pescara le 12 mars 1863 et mort à Gardone Riviera le 1er mars 1938. Héros de la Première Guerre mondiale, il soutient le fascisme à ses débuts et s’en éloigne par la suite. »
Or rien n’est plus faux que D’Annunzio prît ses distances avec le fascisme. S’il prit ses distances avec les affaires du pays, c’est en raison des infirmités de son grand âge. La preuve en est dans les lettres que le poète adressa peu avant sa mort à Mussolini, lettres qui réitèrent le soutien du poète au Duce et continuent d’exprimer l’enthousiasme des commencements.
Voici ce qu’il écrit à propos de la conquête d’Éthiopie (1936) :
Mon cher Compagnon, qui m’es plus cher que jamais.
Tu as sans nul doute senti combien je t’étais proche en ces journées marquées par ton héroïsme vrai, suprême et serein.
Tout ce qu’il y a de meilleur en mon art, tout ce qui aspire à la grandeur, se dressait en moi, du plus profond de mon être, dans l’espoir de sculpter ta haute figure quand toi seul, contre les intrigues des vieillards, la fausseté des hypocrites, les peurs des âmes épuisées, tu défendais ta patrie, ma patrie, l’Italie, l’Italie, l’Italie, seul et à visage découvert.
Elle te sied, la parole de Dante. Du sépulcre ardent, l’ombre de Farinata s’est levée. À visage découvert.
Je t’ai admiré et je t’admire en chacun de tes actes, en chacune de tes paroles. Tu t’es montré et te montres égal au destin que tu rends toi-même invaincu et immuable, tel une loi, tel un décret – ordre qui n’est point nouveau mais éternel.
Tu ne sais pas encore que j’ai commencé à traduire ton extraordinaire discours au peuple d’Irpino dans le latin des Commentaires avec un peu du mordant de Salluste.
Dans sa nudité, ce latin, mieux que la plus pénétrante analyse, révèle l’esprit de ton éloquence. Je voudrais qu’il fût imprimé en exergue à un volume de tes discours.
O Compagnon, ne va pas te salir en t’adressant au puant cloaque de Genève [la Société des Nations].
Sois inébranlable en comprimant ton hilarité, l’âme sereine.
Je t’embrasse. Et je te demande la faveur de mourir pour ta Cause qui est mienne et celle du Génie latin indomptable. Chargé d’ans, recru de solitude, je veux enfin mourir pour la neuve et antique Italie. Ma foi qui ne vacilla pas m’a fait mériter ce prix.
Et (1937) :
Mon cher et grand compagnon, toujours plus grand, il y a trop longtemps que nous ne nous rencontrons pas, ne nous voyons ni ne nous parlons. Dans cet intervalle a surgi dans ta vie le plus haut des événements. Après tant de batailles, tant de victoires, tant de volonté et de heurts, tu as vraiment accompli ce qui, dans l’histoire des grands hommes n’est presque jamais accompli. Tu as créé ton Mythe.
Je t’ai écrit naguère un mot dénué de sens : « N’oses-tu pas, sur ta lancée, chanter les Chants d’Outre-Mer ? »
Pardonne-moi ce mot. Ta cavalcade dévorante et conquérante est au-delà de toute entreprise d’Outre-Mer. Dans toute l’histoire des Conquistadores, jamais on n’en vit aucun – avec ses seuls moyens d’homme – créer son Mythe éternel comme toi.
« Inventeur de mythologies », c’est ainsi que me nommait hier l’obscur philologue Evelino Leonardi qui est bien de ce monde-ci. Un poète plus subtil de France m’appelle, lui, « sourcier de mythes » en alliant aux mythes la mystérieuse faculté de qui découvre les eaux souterraines.
Parmi tant d’insignes bienfaits, tu m’as donné celui de voir un homme vivant créer son Mythe immuable.
Dans sa course, ton cheval a dessiné l’extrême confin de ta Conquête africaine. Course infatigable – auprès d’elle celle de Mazeppa est un jeu d’enfants – course qui, à jamais, a tracé le contour de la Conquête nouvelle…
Pardonne-moi. Peut-être me permettras-tu d’écrire ce Prodige, armé de la plus acérée de mes plumes lyriques. Aujourd’hui je ne veux ni ne puis mêler le sacré au profane.
Je vais t’envoyer deux messagers de mon amour le plus profond : Gian Carlo Maroni et Leopoldo Barduzzi. Ils te parleront du Vittoriale [propriété de D’Annunzio], de la nécessité de le sauver, des moyens à adopter pour l’arracher aux griffes d’héritiers avides et cyniques et le rendre à sa sérénité monumentale.
Le Vittoriale est à toi.
C’est d’ici que partirent vers toi les premières grandes prophéties de ta grandeur et de ta gloire. D’ici partirent les premières paroles dignes de ton destin. N’oublie pas cette beauté, cette vérité, ce courage.
Cher Compagnon, toujours plus cher, je te recommande tout mon idéal et je t’embrasse, l’âme élargie comme celle, sous le soleil désert, du nouvel Empereur d’Éthiopie.
Dans cette lettre, D’Annunzio rappelle qu’il fut l’un des premiers « prophètes » de la grandeur de Mussolini et de son mouvement.
L’éditeur de la correspondance ajoute cette note : « Le ‘subtil poète de France’ est Jean Cocteau qui, en 1932, avait envoyé au Poète son Essai de critique indirecte avec la dédicace : ‘À Gabriele D’Annunzio, sourcier du mythe, chercheur d’or, mage astrologue, oracle, son ami J. C.’ » (p. 224)
Toujours sur le même sujet et, en particulier sur le Négus, le fameux Ras Tafari, qu’il caricature en « fantoche poilu perché au sommet de sa cloche plissée », D’Annunzio écrit également à Mussolini (1er mars 1936) :
(…) Qu’aujourd’hui chaque cartouche d’Italie vaille un homme mort.
Tout entière, l’Éthiopie au rude relief doit inexorablement devenir un haut plateau de la culture latine.
Sois loué, toi qui es parvenu à insuffler à notre race, trop longtemps inerte, la volonté de mener à bien cette tâche. Sois loué, toi qui mènes à leur terme tant de siècles exempts de gloire guerrière et les fais s’accomplir dans la splendeur de cet assaut et de cette conquête.
Aujourd’hui, pour toi, la nation va chercher son souffle au plus profond. Tout est vivant, tout respire. Tout possède ce don fatal. Je sais que désormais le destin même de cette nation puissante possède bronches et plèvre pour ce souffle.
Pourquoi l’allure de Sélassié m’inspire-t-elle une telle hilarité ? La barbe paraît l’encadrer comme un chromo de café de province.
C’est vrai ; j’ai toujours honoré et célébré la vertu du sang. Mais de quelle solennelle origine pourrait bien venir le sang de ce fantoche poilu perché au sommet de sa cloche plissée ? Il n’est pas de figure de rhétorique plus vide que ce manteau en forme de cône.
L’Éthiopie est romaine depuis des temps immémoriaux, comme la Gaule de César, comme la Dacie de Trajan, comme l’Afrique de Scipion.
Après des siècles d’expérience, la diplomatie a enfin acquis le vrai sens historique, celui qui est profond et que ne peut écarter nulle domination. Quelle imbécillité, plus ou moins antique, peut donc aller se confier au pouvoir universel d’un ministre novice, dont les architectes sont le coiffeur, le tailleur et le chapelier et qui, par hasard ou vice, se nomme M. Anthony Eden ?
Combien je m’amuse à ce théâtre de marionnettes grinçantes ! En vérité, dans leur rigidité, les pantalons britanniques ne le cèdent en rien à la cloche style Salomon du velu Hailé Sélassié.
Et lorsque l’Italie, sur la question éthiopienne, quitta la Société des Nations, D’Annunzio félicita immédiatement le Duce en ces termes (13 décembre 1937) :
Tu sais que depuis cinq ans environ j’attendais de toi, avec une inébranlable confiance, l’acte que tu viens d’accomplir. Beaucoup en ont été émerveillés jusqu’à l’ivresse, mais nul, comme moi, n’a été frappé au plus profond de son cœur par une sorte de révélation surnaturelle. C’est bien souvent que j’ai représenté ton mythe, dans sa pureté mystique, ce mythe qui a dessiné ton visage. Je t’ai décrit, t’en souvient-il ? – galopant sur les rives de l’Océan et montant des plages africaines aux hauteurs rocheuses d’Addis-Abeda. Mais ce que tu viens soudain de faire, cet acte immense – dépasse toute attente et tout autre prodige espéré. Tu as imposé ton jour à toutes les incertitudes du destin, tu as vaincu toutes les hésitations de l’homme. Tu n’as rien à redouter, tu n’as plus rien à redouter. Jamais victoire ne fut si pleine. Concède-moi l’orgueil de l’avoir prévue et annoncée. Ce soir, je me tais et t’embrasse comme je ne le fis jamais.
Source : Correspondance D’Annunzio-Mussolini, Ed. Buchet/Castel, 1974 (traduit de l’italien par Paul Jean Franceschini, avec la collaboration des professeurs Renzo De Felice et Emilio Mariano), dont le compilateur titre la dernière partie du recueil, celle des lettres écrites entre décembre 1934 et la mort de D’Annunzio en mars 1938, « Un podagre dévot du Duce ».
C’est en fasciste non repenti que D’Annunzio s’éteignit le 1er mars 1938, recevant des funérailles nationales du régime fasciste.
Qu’il se fût éloigné du fascisme est donc une fausseté. Qu’il s’opposât, en revanche, au rapprochement de l’Italie fasciste avec l’Allemagne nationale-socialiste, est certain. Après avoir lu les lettres ci-dessus, il convient de souligner que l’opposition à un tel rapprochement ne pouvait pas signifier pour D’Annunzio un alignement sur la Société des Nations (le « puant cloaque de Genève ») ou une alliance avec l’Angleterre (qui serait une « imbécillité »), c’est parfaitement clair. D’Annunzio préconisait donc une forme d’isolement européen pour le régime fasciste.
C’est là que l’intérêt du poète pour l’Amérique latine, dans le sens d’une alliance en faveur de la latinité, prend tout son sens.
D’Annunzio fit tout ce qu’il put pour saboter l’alliance entre l’Italie fasciste et le Troisième Reich, en raison de son irrédentisme et de sa germanophobie. L’irrédentisme italien était en effet dirigé contre un Empire largement perçu comme germanique – le Saint Empire germanique –, c’est-à-dire comme une machine germanique à broyer les peuples. (Le jeune Hitler considérait quant à lui l’Empire des Habsbourg, l’Empire austro-hongrois, comme une machine à broyer le peuple allemand. Ces divergences d’appréciation tiennent sans doute, au-delà des œillères propres à chaque nationalisme, à une constitution despotique, au sens de Montesquieu, qui ne pouvait satisfaire personne. – Pour être tout à fait précis, Montesquieu ne décrivait pas les monarchies européennes de son temps comme despotiques mais comme modérées ; le despotisme ne se trouvait selon lui qu’en Orient. Or il n’est pas impossible que l’Empire multi-ethnique austro-hongrois ait parcouru en quelques décennies un chemin qui le rapprochait de la constitution despotique telle que décrite par Montesquieu pour l’Empire ottoman lui-même multi-ethnique ; ou bien la monarchie même « modérée » décrite par Montesquieu ne pouvait tout simplement plus, au vingtième siècle, répondre aux aspirations des peuples européens.)
On ne s’étonne pas de trouver des attaques contre D’Annunzio sous la plume d’auteurs völkisch. L’Autrichien Jörg Lanz von Liebenfels, fondateur de l’Ordo Novi Templi (ONT) et du mouvement ariosophique, lui consacre plusieurs passages de sa revue Ostara. Lanz reproche à D’Annunzio son irrédentisme, moins d’un point de vue nationaliste qu’impérialiste : l’irrédentisme est de ce point de vue une forme de division débilitante de peuples de culture. Durant l’occupation irrédentiste de Fiume par D’Annunzio et les Arditi à la fin de la Première Guerre mondiale, D’Annunzio reçut d’ailleurs des encouragements tant de Gramsci que de Lénine, et son entourage lui conseilla de s’aligner purement et simplement sur le modèle de la jeune république des Soviets, ce qu’il refusa cependant. Lanz voit également en D’Annunzio un type racial inférieur. Il lui reproche l’usage lucratif et intéressé qu’il ferait de sa carrière littéraire. À cette occasion, Lanz dit que D’Annunzio est juif (un juif polonais dont le véritable nom serait Rappaport) ; il ne cite aucune source à l’appui d’une telle allégation et il est permis de penser qu’il s’agît d’un moyen facile de discréditer l’écrivain auprès d’un public antisémite.
Sans doute Lanz n’avait-t-il pas lu les œuvres de D’Annunzio ; s’il l’avait fait, il aurait trouvé d’autres arguments contre lui. Le roman Il Piacere, traduit en français sous le titre L’enfant de volupté (un titre précieux pour un original brut : « Le plaisir »), est l’histoire d’un homme qui cause involontairement la mort de sa maîtresse en criant pendant l’orgasme le nom de sa maîtresse précédente ; c’est le clou du roman.
Que D’Annunzio ne se soit jamais éloigné du fascisme est un fait établi. Qu’il s’en serait éloigné par la suite, en voyant le régime mussolinien devenir pendant la guerre un satellite du Troisième Reich allemand, n’est pas impossible, mais ceci relève de l’histoire-fiction : « Si D’Annunzio avait vécu jusque-là… »
*
II
D’Annunzio et la Révolution mexicaine
a/ Le fascisme italo-américain
b/ D’Annunzio et le Mexique
a/ Le fascisme italo-américain
Un point commun de nombreux pays américains de l’entre-deux-guerres était la présence d’une population immigrée italienne, dans des proportions plus ou moins importantes. En 1927, les Italiens représentaient, en tenant compte également de leurs enfants nés en Amérique, 6 % de la population des États-Unis, 6 % également de celle du Brésil, entre 40 et 50 % en Argentine et Uruguay.
Avec l’arrivée au pouvoir de Mussolini, l’émigration italienne prit fin, notamment en raison des nouvelles opportunités économiques créées dans le pays par le régime fasciste. Cette renaissance italienne, le pays passant en quelques années du statut de « nation prolétaire » (Corradi) à celui de nouveau pays développé, ne manqua pas d’exercer sur les criollos (Blancs) italiens d’Amérique latine un intérêt croissant pour le fascisme. C’est ainsi que furent créées dans les communautés italiennes de différents pays américains des institutions typiquement fascistes, telles que les Fasci, organes militants, le Dopolavoro, organisations de loisir, la Befana fascista, caisse d’aide sociale, etc.
L’Italie de Mussolini noua des relations diplomatiques avec les États latino-américains, dont certains se montrèrent particulièrement intéressés par les idées nouvelles du fascisme, notamment le corporatisme économique1. Au plan culturel, le Duce insistait sur le concept de « latinité » pour étayer l’idée d’une communauté hispano-italique unissant l’Italie et l’Amérique latine. Dans ce cadre, le régime soulignait l’italianité de Christophe Colomb et d’Amerigo Vespucci, le « césarisme » de Simon Bolivar, et cherchait également à contrecarrer le pan-hispanisme des intellectuels espagnols liés au camp nationaliste durant la guerre civile d’Espagne, la latinité fasciste étant présentée par le régime italien comme un mouvement moderniste, l’hispanisme au contraire comme une idéologie réactionnaire.
Cette diplomatie active, aidée par les communautés italiennes nationales, fit que, lorsque l’Italie fut sanctionnée par la Société des Nations après son invasion de l’Éthiopie, certains pays latino-américains, l’Équateur, le Pérou, refusèrent d’appliquer ces sanctions, ce qui contribua à les faire lever.
Les choses commencèrent à changer avec la guerre et la pression des États-Unis sur les pays latino-américains. Ces pressions avaient en fait commencé dès avant la guerre, les États-Unis demandant à ses voisins de réduire les activités fascistes sur leurs territoires ; sans doute considéraient-ils ces activités comme une forme d’ingérence contraire à l’immuable Doctrine Monroe. Quand les hostilités furent déclarées, les pays d’Amérique latine rejoignirent les Alliés l’un après l’autre (l’Argentine au tout dernier moment et sans doute en vue de faciliter son projet d’exfiltration de personnalités allemandes et italiennes). C’est donc à un renversement de politique des pays latino-américains que donna lieu l’entrée en guerre des États-Unis. (Dans certains cas, le renversement de tendance, de la part de dirigeants inspirés du fascisme, précéda l’entrée en guerre. Au Brésil, l’Estado Novo [État nouveau] de Gétulio Vargas, au pouvoir depuis 1930, fut édifié en 1937 sur des principes fascistes, notamment le corporatisme, et Vargas aurait même demandé à faire partie du Pacte Anti-Komintern, sans résultat ; mais dès 1938 il « lusophonisait » l’ensemble de la presse et de l’enseignement au Brésil, mettant un terme aux activités des organisations fascistes italiennes ou italo-brésiliennes dans le pays.)
(Sources diverses, dont la principale : Fascisti in Sud America, a cura di Eugenia Scarzanella, Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 2005)
b/ D’Annunzio et le Mexique
Contrairement à nombre d’autres pays d’Amérique latine, le Mexique comptait fort peu d’immigrés italiens. Qui plus est, le président Cárdenas, au pouvoir depuis 1935, donna au pays une orientation nettement anti-fasciste.
À côté des institutions fascistes italiennes qui se développèrent au Mexique sur le modèle des autres pays latino-américains, là comme ailleurs plusieurs mouvements autonomes philofascistes virent également le jour :
–les Chemises Dorées (Camisas Doradas), membres de l’Action Révolutionnaire Mexicaniste (Acciόn Revolucionaria Mexicanista, ACR), appuyées par l’ex-« Maximato » Elías Calles (prédécesseur de Cárdenas à la présidence du pays), responsables de deux tentatives de coup d’État contre Cárdenas, tentatives soutenues par l’Union nationale des vétérans de la Révolution (Uniόn Nacional de Veteranos de la Revoluciόn, UNVR), et dont le leader, le général Nicolás Rodríguez Carrasco, ancien compagnon d’armes de Pancho Villa (il donna à son mouvement le nom des troupes d’élite de Pancho Villa, los Dorados) fut déporté aux États-Unis ;
–un mouvement autour du général Saturnino Cedillo, acteur de la Révolution mexicaine, gouverneur de San Luis Potosí, également auteur d’une tentative de coup d’État en 1938 ;
–un autre mouvement autour du général Román Yocupicio Valenzuela, acteur de la Révolution mexicaine, gouverneur de l’État de Sonora, d’origine indigène2 ;
–l’Action populaire mexicaine (Acciόn Popular Méxicana) de l’écrivain Rubén Salazar Mallén ;
–le Mouvement nationaliste mexicain (Movimiento Nacionalista Mexicano) ;
–le Mouvement des étudiants nationalistes (Movimiento de los Estudiantes Nacionalistas) ;
–la revue Timόn de l’écrivain José Vasconcelos3, ancien ministre de la culture de 1921 à 1923 pendant la présidence d’Álvaro Obregόn, puis candidat d’opposition aux élections présidentielles en 1929, qui, refusant le résultat de l’élection en raison des fraudes électorales qu’il dénonça, tenta l’insurrection armée avant de s’exiler un temps aux États-Unis et en France ;
–l’Union nationale synarchiste (Uniόn Nacional Sinarchista) ;
–le Parti national de salut public (Partido Nacional de Salvaciόn Pública), fondé par plusieurs anciens généraux et colonels de la Révolution mexicaine (Bernardino Mena Brito, Francisco Coss, Adolfo Leόn Osorio, qui fut surnommé « le tribun de la Révolution »…) ; etc.
Tous ces mouvements et personnalités furent plus ou moins liés aux pouvoirs italien et/ou allemand, y compris par des liens financiers. On voit que des acteurs de la Révolution mexicaine (Carrasco, Cedillo, Yocupicio…), désenchantés par le régime, le dénonçaient. L’un des griefs était notamment, sous la présidence de Cárdenas, que ce dernier trahissait l’« agrarisme » de la Révolution mexicaine pour des idées collectivistes d’origine marxiste.
C’est dans ce contexte que D’Annunzio assuma le haut patronage de la Société italo-mexicaine (Società Italo-Messicana) créée en 1923 par le régime fasciste. (Source : article Bajo el signo del Littorio: La comunidad italiana en México y el fascismo 1924-1941, par Franco Savarino)
Durant l’occupation de Fiume en 1919-1920, D’Annunzio avait ajouté aux thèmes irrédentistes (nationalistes) celui de la révolution anti-bourgeoise. C’est cette dernière tendance qui lui fit recevoir l’hommage de Gramsci et de Lénine, même si ces derniers fermaient alors les yeux sur la mystique nationaliste de D’Annunzio. D’un autre côté, ce mélange de révolution anti-bourgeoise et de nationalisme en conduit certains à parler, pour le coup de Fiume, de « première expérience fasciste » (avant la prise du pouvoir par Mussolini en 1922).
Le fait que D’Annunzio ait accepté le patronage de la Société italo-mexicaine semble indiquer (cela reste à démontrer) qu’il connaissait la culture et l’histoire du Mexique, et, que dans sa propre pensée révolutionnaire, il avait peut-être médité l’exemple de la Révolution mexicaine. De sorte que, si l’on admet que D’Annunzio eut une quelconque influence sur le développement intellectuel du fascisme (ce qui est le point de vue adopté par la page Wikipédia italienne sur lui : «Come figura politica lasciò un segno nella sua epoca ed è considerato un importante precursore nonché ispiratore del fascismo italiano.»), il se pourrait que la Révolution mexicaine ait joué un rôle dans le développement du fascisme par ce biais, compte tenu également du fait que nombre de vétérans de cette révolution devinrent par la suite sympathisants du fascisme italien.
*
1 La Constitution de style totalitaire, et notamment corporatiste, en vigueur au Paraguay entre 1940 et 1967, adoptée sous la présidence du général Estigarribia et inspirée du fascisme italien, peut être considérée comme la Constitution fasciste la plus durable de l’histoire mondiale (si on laisse de côté les Constitutions de l’Estado Novo portugais et du franquisme espagnol, qui ne sont pas à proprement parler du fascisme pour certains).
2 Le général Yocupicio, gouverneur de l’État de Sonora de 1937 à 1939, semble être aujourd’hui encore une figure importante aux yeux des Indiens Seri, ou Conca’ac, comme en témoigne le récit suivant, qui parle d’une pacification des relations entre cette communauté indigène et les autorités de l’État mexicain pendant son gouvernorat.
Punta Chueca: Socaiix
En aquellos tiempos, cuando trabajaba como gobernador de la comunidad conca’ac el señor Chico Romero, acordό la paz entre conca’ac y mexicanos con el general Yocupicio, quien por medio del señor Chico Romero y su compañero Antonio Herrera, apoyό a la comunidad conca’ac; por eso el general es inolvidable para nosotros.
Una forma de terminar la guerra fue que los conca’ac mayores y menores comenzaran a estudiar para aprender a leer y escribir. Algunos de los que estudiaron fueron los que fundaron el pueblo en que vivimos y que se llama Punta Chueca.
El general Yocupicio, junto con el asesor del gobernador Luis Thompson y su hermano Roberto, apoyaron con muchas cosas y trabajos a la comunidad.
Los que iniciaron el pueblo se dedicaban a pescar caguama y pescado por el consumo familiar; vivían en Santa Rosa, después vinieron a Punta Chueca y Campo Ona. Así se quedaron trabajando hasta formar el pueblo; después vinieron gentes de otros lugares a quedarse en Punta Chueca, propiciando también la construcciόn de los primeros caminos que se hicieron, cortando mezquites, cactos y todo lo que encontraban a su paso.
En esos tiempos la pesca se hacía con dinamita o anzuelo y arpones de varilla, para los tiburones grandes. Algunos de los fundadores del pueblo aún viven, por ello podemos encontrar a hombres que perdieron dedos de la mano, al explotarles la dinamita antes de tiempo.
Así se formό la comunidad Punta Chueca, un pequeño poblado que ahora es conocido por artesanal, histόrico y pesquero, que naciό gracias al esfuerzo de las personas, sin apoyo del gobierno.
Estamos muy agradecidos con nuestros antepasados que fundaron esta comunidad, ahora sus descendientes vivimos felices y libres en nuestro territorio donde nacimos, crecimos y queremos morir.
Historias de los conca’ac, Consejo Nacional de Fomento Educativo Conafe, 2006, pp. 91-2
3 On a vu D’Annunzio, dans ses lettres, louer Mussolini pour les faits d’armes de l’Italie en Éthiopie. D’Annunzio exaltait – classiquement pour un nationaliste – la valeur guerrière dans le fascisme, au service de la gloire (ou de la gloriole) nationale.
Il n’est pas inintéressant d’observer qu’un autre intellectuel ici nommé, le Mexicain José Vasconcelos, adopte à ce sujet un point de vue diamétralement opposé, à savoir que l’esprit militaire du fascisme serait étranger à l’italianité, ce dit non point au discrédit de celle-ci mais plutôt de celui-là. Cela est affirmé cependant sur le mode hypothétique, à savoir, même si les Italiens ne possédaient pas l’esprit militaire, il faut admettre que « toute culture supérieure tend à dépasser le complexe belliciste » (toda cultura superior tiende a superar el complejo bélico) – complexe dont les lettres emphatiques de D’Annunzio à Mussolini sont au contraire une expression débridée.
Está hoy de moda hacer burla de los desplantes del dictador Mussolini, que no corresponden a la realidad de su naciόn, pero aun suponiendo que al italiano le falte lo que se llama espíritu militar, esto mismo es ya una recomendaciόn si se atiende a que toda cultura superior tiende a superar el complejo bélico, y si los italianos han conseguido esto último, con eso bastaría para colocarlos a la cabeza de la civilizaciόn; pero es un hecho, además, que en todos los όrdenes, desde la poesía del Dante a la bomba atόmica de Fermi, en dos mil años de historia, no hay un momento en que Italia no haya sobresalido a la par de los más adelantados, cuando no por encima de ellos, en ciencia y en arte, en política y en religiosidad.
José Vasconcelos, La flama. Los de arriba en la Revoluciόn. Historia y Tragedia, 4a ed. 1960, p. 324
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Pour compléter cette lecture, on peut consulter également :
–sur Vasconcelos, mon billet Literatura latinoamericana comprometida… a la derecha (espagnol et anglais) (ici) ;
–une bibliographie d’ouvrages d’Amerikanistik publiés dans l’Italie fasciste (ainsi que dans le Troisième Reich) (ici).